Il vino si fa in vigna?

Nel bel mezzo di una delle mie letture enoiche mi sono imbattuto in uno degli aneddoti più eloquenti e senza tempo dell’enologia e la viticoltura. Si tratta di un breve scambio di battute fra Andre Mentzelopulous – che acquistò Château Margaux e la portò ad essere la cantina più “importante” al mondo – ed Emile Peynaud – a sua volte, colui che divenne senza tema di smentita l’enologo più famoso della storia.

Vi invito a cercare nel web i pensieri, dissertazioni enoiche e gli aforismi legati alla figura di Peynaud, in quanto capaci di sintetizzare un approccio alla viticoltura e al fare vino capace di fondere tecnica in cantina e rispetto in vigna. Concetti che fungevano e possono ancora fungere da riferimento, in quanto Peynaud fu un pioniere della tecnica e della tecnologia di cantina.

Tornando all’aneddoto, il giorno in cui l’ormai defunto proprietario della celebre cantina francese assunse Emile Peynaud come consulente enologico, pronunciò le parole che definiscono il comprensibile incipit dell’avventura di ogni produttore di vino e vignaiolo:

-“Vorrei fare il miglior Vino!”

E’ a quel punto che L’enologo rispose:

“Non è così difficile… tutto ciò che deve fare è darmi le migliori uve!”

Scontato, penserete voi… e forse, ora come ora potrebbe esserlo per alcuni, ma per esperienza personale ho compreso quanto, specie ultimamente, si tenda a utilizzare frasi fatte e termini sin troppo iperbolici per definire il proprio approccio alla viticoltura e alla produzione di vino. Cosa più grave, sempre più spesso, si tende a farlo senza cognizione di causa, solo perché a livello comunicativo quelle frasi sembrano risultare vincenti.

Volete un esempio? Vi accontento subito! Quanti di voi, appassionati e/o addetti ai lavori, si sono sentiti dire o hanno letto online in qualche sito aziendale frasi del tipo: “il Vino si fa in vigna”?!

Beh, frase bellissima, no?! In fondo è proprio quello che Emile Peynaud diceva! Eppure, egli non era di certo un vignaiolo naturale! Peynaud era noto per aver, più volte, sottolineato quanto fosse importante portare in cantina uve sane e a piena maturazione, eppure era consapevole di quanto ciò non bastasse, tanto che la maggior parte dei suoi scritti trattano di lavoro di cantina e ben poco di quello in vigna.

D’altro canto, c’è davvero chi pensa che fare grandi vini senza competenze tecniche, nascondendo le lacune con dei principi quali la naturalità e la genuinità, sia possibile?!?

Anche in questo caso, secondo il mio modesto parere, “in medio stat veritas”, oltre che la virtù.

E’ fondamentale acquisire maggior consapevolezza e, quindi, rispetto nel lavoro agricolo in genere e ancor più nella viticoltura moderna, odierna, contemporanea. Sì, perché è questo il nodo principale della questione “la contemporaneità”, che può attingere alla tradizione, ma deve, per forza di cose, saper discernere e fugare quelle che sono credenze popolari e approcci spacciati come tradizionali dettati non dall’amore per la terra, bensì dall’ignoranza e, spesso, anacronistici e deleteri sia per il vino che per il consumatore, nonché per tutto il comparto di vignaioli e produttori.

La mia non vuole essere una sviolinata ai tecnici, agli enologi, bensì una presa di coscienza personale che mi ha portato a capire quanto sia assurdo demonizzare la figura dell’enologo in toto, ma altresì che sarà sempre più importante per le cantine e per chi compra e beve vino, prendere atto di quanta differenza ci sia fra un enologo illuminato e rispettoso in vigna ed in cantina (meglio se anche agronomo o supportato da un agronomo) ed un “winemaker” che ha come obiettivo creare il proprio vino, o ancor peggio un “vino tailor made”, fatto su misura per mercati o imprenditori/produttori.

Molti pensano che la figura dell’enologo sia quella di un moderno alchimista o ancor peggio di un chimico e, forse, qualcuno ancora oggi continua ad approcciare il proprio lavoro imboccando la strada più semplice e remunerativa, ma io mi sento di asserire che la maggior parte degli enologi italiani, di cantine non “industriali”, stia sempre più tornando a un rispetto profondo di quello che dalla vigna arriva in cantina, perorando la causa dell’identità varietale e/o territoriale, come primo indice di qualità del proprio lavoro e del vino prodotto. Ci sono e ci saranno sempre le eccezioni, ma la speranza è quella che la visione dell’enologo sia sempre più vicina o, quantomeno, complementare a quella dell’agronomo e del vignaiolo.

Per quanto le parole di Emile Peynaud possano sembrare scontate e dando per assunto che un grande vino dipenda anche e soprattutto da grandi uve, io continuo a pensare che, a prescindere dalle certificazioni (che rappresentano comunque una certezza riguardo l’abbandono da parte delle aziende di alcune pratiche obsolete e poco sostenibili), si debba arrivare ad una maggior chiarezza in etichetta, riguardo l’approccio reale a ogni fase della filiera e, ancor più, dei processi di cantina, perché la realtà è che l’uva si fa in vigna e il vino si fa in cantina (sono certo che Peynaud sarebbe d’accordo), ma questo non deve essere percepito con accezione negativa, bensì come un’opportunità di dimostrare la qualità e la sostenibilità del proprio lavoro, dal vigneto alla bottiglia.

Non dimentichiamo che è in cantina che tutto può essere disfatto, corretto, mutato o omologato, ma anche interpretato con sensibilità e attenzione, coerenza e nitidezza di pensiero, nonché quella consapevolezza tecnica che permette il lavoro in “sottrazione” (togliere il superfluo con cognizione di causa, senza ledere il risultato finale, anzi migliorandone l’afferenza territoriale e l’aderenza alla materia prima con il quale è prodotto). Per intenderci, c’è una bella differenza fra vini “ossidativi” e vini “ossidati”, fra vini con una volatile a “0,9” g/l ben integrata, capace di aprirne la percezione olfattiva e di caratterizzarla positivamente, e vini palesemente difettati o tra vini non filtrati che arrivano in bottiglia puliti e stabili e vini che vogliono spacciare ingenti depositi e residui zuccherini che, spesso, provocano rifermentazioni in bottiglia, come sinonimo di “genuinità del prodotto”. Discorso più ampio, che ho già trattato in altre sedi, quello relativo da un lato ai residuali chimici e agli eccessi di solforosa e dall’altro alle ammine biogene (cadaverina, putrescina, tiramina ecc…).

Un ulteriore considerazione andrebbe fatta sulla qualità delle uve abbinata all’annata, ergo al concetto di selezione. Va da sé che in un’annata come la 2016 (positiva pressoché in tutta Italia) sarà più “semplice” (per quanto di semplice ci sia ben poco quando si tratta di viticoltura virtuosa), per vignaioli e agronomi, portare in dote all’enologo e/o al vinificatore/produttore un’uva sana e dai parametri analitici ottimali, ma non è altrettanto “assoluto” che in un’annata come la 2014 (più fredda e piovosa), di certo provante per la gestione agronomica a causa di un’incidenza maggiore delle fitopatie della vite, le uve portate in cantina siano qualitativamente di basso rango. Questo perché, è proprio in annate più complesse (gelate tardive o episodi grandigeni ad ampio spettro a parte) che il produttore virtuoso può dimostrare la sua attenzione e produrre ugualmente, seppur in quantità decisamente minori, ottimi vini da ottime uve, spesso sorprendentemente più in linea con i parametri “classici” ai quali eravamo abituati pre-cambiamenti climatici. Per questo la domanda che dovremmo farci in annate come la 2014 non è se un produttore sia stato o meno così “corretto” da non produrre vino ma quanto vino ha prodotto quella cantina in relazione all’andamento climatico della sua zona di riferimento. Ho volutamente preso come riferimento un’annata fredda e piovosa, in quanto sinonimo di difficoltà e di dispendio di energie e denaro per via del maggior numero di trattamenti e di una gestione doverosamente più accorta del grappolo, specie in selezione, ma siamo ben consapevoli di quanto le annate più difficili dal punto di vista dei valori analitici siano quelle calde e siccitose (come la 2022 appena trascorsa) purtroppo sempre più frequenti. Ho esposto più volte considerazioni riguardanti gli esiti dei cambiamenti climatici e riguardo la futuribilità della viticoltura italiana con riferimento a particolari areali, quindi non mi dilungherò oltre in questo pezzo, ma mi piace pensare che proprio grazie alla maggior contezza tecnica e a una rinnovata apertura mentale riguardo certi paradigmi vetusti del mondo del vino si possa arrivare a una evoluzione agronomica ancor più che enologica, proprio a causa/”grazie” a ciò che stiamo vivendo.

Tornando al fulcro della disquisizione, vedo molti vignaioli – spesso giovani o molto giovani – sentire forte il bisogno di studiare e di approfondire le tecniche enologiche o con percorsi di studi universitari o grazie al supporto di mentori, altri ancora viaggiando e cercando apprendere il più possibile dal lavoro delle cantine italiane e non, nonché confrontandosi fra loro, assaggiando e livellando verso l’alto la propria percezione, la propria consapevolezza e i propri obiettivi. Bene! Non c’è una ricetta univoca e io non mi metterei mai a sindacare su quale sia il percorso migliore, in quanto non ne ho idea, ma inizio a diffidare di chi mi dice “questo vino è fatto proprio come lo faceva mio nonno” o ancor peggio “per produrre questo vino non ho fatto niente, ho solo raccolto le uve poi si è fatto da solo”… troppe frasi usate in maniera fuorviante e con poca ragionevolezza, eppure, – per fortuna, oserei dire – di consapevolezza ce n’è e ce ne sarà sempre di più, proprio grazie a questa fondamentale diatriba fra “naturale” e “convenzionale”, che è partita come una guerra, ma oggi, finalmente, sembra entrata nella sua fase costruttiva spingendo tutti a un maggior rispetto da ambo i lati.

Io, da par mio, sono certo che i migliori vini di piccole medie realtà, che ho modo assaggiare ogni giorno, abbiano sempre meno la firma dell’enologo e sempre più quella del terroir ed è in quel caso che l’enologo meriterebbe una standing ovation e non quando, in mezzo a tanti, a essere riconoscibile è una chiara cifra stilistica individuale ed indipendente da annata e territorio, con marcatori anacronistici legati all’interdipendenza che c’è stata (sta scemando anch’essa) fra critica e mercati, da un lato, e enologi e produttori, dall’altro. Un processo che ha portato a creare quelle che abbiamo percepito come “mode” ma che, in realtà, rappresentavano solo fasi di stallo dell’evoluzione del pensiero enoico e della capacità interpretativa di chi il vino lo fa.

Quindi, sintetizzando, la tecnica ci vuole, ma va messa a servizio della natura cercando di rispettarne a pieno le dinamiche e di aiutarla ad esprimersi al meglio, nella sua integrità e salubrità, in vigna ed in cantina.

Parafrasando Walter Benjamin: “Il Vino è un’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”

Frase che tutto sta a significare, meno che l’invito all’omologazione e alla standardizzazione del prodotto finale, che deve, proprio grazie alla consapevolezza del fare e del non fare, rispondere sempre di più alla sua matrice identitaria originale, nel rispetto di una sostenibilità a 360° (ambientale, sociale ed economica).

F.S.R.

#WineIsSharing

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